Chissà se, trascorsi altri ventidue anni, l'autore ha infine fatto pace con un disco che così liquidava, impietosamente, nel libretto a corredo della ristampa Rykodisc del 1995: "Congratulazioni! Avete appena acquistato il peggiore album della mia carriera". Più avanti argomenterà e, addossandosi elegantemente tutte le colpe di un fallimento attribuito dai più alla regia della coppia Clive Langer/Alan Winstanley (già responsabile dei suoni del precedente Punch The Clock), un tot di cose le salverà, ma tant'è. Gran brutto periodo i mesi a cavallo fra l'83 e l'84 per Elvis Costello e sarà anche per questo che del suo nono LP in studio — e ottavo fiancheggiato dagli Attractions — non conserva un buon ricordo. Stava divorziando dalla prima moglie e pure i rapporti con i collaboratori di sempre — il tastierista Steve Nieve, il bassista Bruce Thomas e il batterista Pete Thomas — erano ai minimi. Idee tante ma confuse, demotivava i ragazzi della band annunciando prima dell'inizio delle registrazioni che quello sarebbe stato il loro ultimo album insieme (e forse il suo ultimo album e basta) e costringeva in continuazione il team produttivo ad aggiustare il tiro, con indicazioni contraddittorie. Si partiva con l'idea di incidere il disco sostanzialmente dal vivo in studio e si finiva invece per incagliarsi nelle secche di una registrazione stratificata, di sonorità pop quando si era partiti da un impianto folk-rock. E si arrivava al punto che l'unica ragione trovata dal nostro uomo per dare alle stampe il risultato di alcune caotiche settimane di lavorazione era che a quel punto si era speso troppo per buttare tutto via.
Non vi sto invogliando granché all'acquisto, eh? In realtà, se Goodbye Cruel World non è di sicuro uno dei dischi migliori di Costello, da salvare/rivalutare c'è non poco, fra il morbido soul con influenze latine di "The Only Flame In Town" che introduce e l'accorato valzer "Peace In Our Time" con cui ci si congeda. Per certo, oltre ai due brani appena menzionati, almeno la serenata blues "Home Truth," l'agonizzante "I Wanna Be Loved" (una cover dello sconosciuto Farnell Jenkins) e l'esplosivo rock 'n' roll "à la Dylan" "The Deportees Club." E a essere onesti nemmeno la produzione è malaccio. C'è qualche eccessiva levigatezza e si paga dazio ai vezzi dell'epoca (solita batteria troppo secca, ad esempio), ma non più di tanto. Superba, come da standard della casa, questa riedizione Original Master Recording: potente nell'impatto, raffinata nel dettaglio.
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